Steve Mccurry, il nome di uno famoso oramai. E come sempre quando un personaggio diviene una celebrità c’è chi sguaina la spada e trafigge la sua figura con parole al veleno. Ho sentito dire che non c’è etica dietro al lavoro di Mccurry, che si è venduto, che fa i soldi sulle disgrazie altrui. Bene. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma prima di evaginare l’arma, bisognerebbe pensare bene se ne vale la pena.
Ho visto diverse volte Mccurry in mostra in Italia, ho comprato il libro delle storie dietro le sue fotografie, sono andato a sentirlo parlare pochi giorni fa a Milano al museo della scienza, in fin dei conti, anch’io ho ingrossato il suo portafoglio. Da amante e fruitore della fotografia posso però dire con certezza di non aver mai visto in altre esposizioni, la qualità delle sue mostre. Impressionante la stampa, favolosi i contesti, incredibili le fotografie. Ecco, penso che le sue fotografie siano incredibili, sfiorano il paradosso se non le si guardano con zelo, e questo forse è l’unico motivo per cui bisogna perdonare chi critica il suddetto fotografo, peccatori di attenzione! Mccurry riesce ad unire due mondi esageratamente lontani in uno scatto. Riunisce l’estetismo di fotografie perfette, saturate al limite dello stampabile, tecnicamente e compositivamente impeccabili, alla durezza del momento reale fotografato.
Prendiamo ad esempio l’immagine che ha fatto la storia della fotografia e del National Geographic. Quella che per me è la Monna Lisa della fotografia: la ragazza afghana. Il fotografo si trova in Pakistan e dopo essere entrato in una scuola di un campo di esuli afghani, in fondo alla classe, nota Sharbat Gula, ragazza dagli occhi illuminati di un verde intenso. Dopo aver chiesto all’insegnante il permesso di scattare delle fotografie ai ragazzi, Steve passa in rassegna alcuni alunni, prima di arrivare a lei (cosicché la stessa non si impressionasse per essere fotografata per prima ma anzi si abituasse all’idea che anche i suoi compagni venivano ritratti). Quando fotografa Sharbat, bastano pochi minuti e qualche scatto, per impressionare la pellicola e il mondo intero con quegli occhi che urlano paura, speranza, curiosità, ingenuità e meraviglia. Questo è il contenuto di quello sguardo. Ed è dentro quegli occhi che si apre al mondo tutta l’opera di Mccurry. In un campo profughi, una situazione a dir poco spiacevole, lui non si limita a scattare delle fotografie documentaristiche, anzi forse non documenta affatto gli eventi, ma fa parlare gli occhi di una ragazzina, 12 anni. Eccome se li fa parlare. Con quell’immagine, di un estetismo clamoroso, ma un rigore e un rispetto unici allo stesso tempo.
Questo è l’elemento che più mi affascina delle fotografie e nei ritratti di Steve Mccurry, il suo “paradosso buono”, ma c’è un’altra cosa che mi convince che egli sia un’ icona vivente (come ormai ce ne sono poche) della fotografia. Egli ha rischiato la vita per il suo lavoro, più di una volta, ha sfidato i monsoni a piedi nudi rischiando malattie infettive e mortali, è caduto da un ponte mentre stava scattando, risvegliandosi in ospedale, le pellicole che contenevano le foto di Sharbat Gula se le è cucite nella tunica, facendosi accompagnare dai Mujaheddin armati oltre il confine. Tutto questo dimostra che Steve Mccurry per la fotografia ha dato l’anima, quasi la vita, e i suoi soggetti hanno donato lui tramite i loro occhi, la loro stessa anima. E grazie a quelle Kodachrome, la loro storia arriva fino a noi. E noi ce ne possiamo emozionare.
A sentirlo parlare ha confermato di essere un grande uomo. Non ha fatto dietrologia sui suoi scatti. Non ha parlato di etica o di politica. Ha raccontato con partecipazione commovente e leggera cosa faceva lo stesso Steve mentre i suoi soggetti guardavano per sempre dentro il suo obiettivo.