Tecnicamente il nostro occhio vede in 50mm. Così ci spiegano nelle scuole di fotografia. Ma io voglio controvertere in parte questa tesi. La visione di un uomo è in proporzioni visive quella di un obiettivo 50mm. Ma non è la visione “totale”. Il nostro campo visivo si avvicina molto di più ad una lente grandangolare, vicina ai 20mm.
Mi spiego meglio: quando guardiamo uno scenario davanti a noi, i soggetti ci appaiono in prospettiva, in base alla loro distanza, con grandezze ben precise. Le proporzioni che il nostro cervello percepisce sono sempre le stesse. Avete mai provato a guardare una scena, da una parte con l’occhio nudo, e dall’altra con l’occhio dietro alla vostra fotocamera reflex che monta una lente di 50mm di focale? Dopo qualche secondo in cui l’organo che ci da la vista si adatterà a questo “oggetto” che ha davanti, abbiamo l’impressione di guardare con entrambi gli occhi “nudi”. Questo avviene perché le lenti interne ad un obiettivo di 50mm proiettano al nostro occhio e quindi al nostro cervello le immagini con le stesse identiche proporzioni dell’occhio stesso (a patto che stiate utilizzando una macchina fotografica Full-Frame se parliamo di digitale). Tutto vero. Quindi il nostro occhio vede in 50mm. Ma quello che non può fare un obiettivo di tale lunghezza focale, è mandare al cervello la visione TOTALE che invece ci dà l’occhio. Oltre infatti a quella porzione di scenario che mettiamo a fuoco a occhio nudo, abbiamo la capacità di “vedere” anche con la famosa “coda dell’occhio”. Ovvero una parte della scena sulla quale non ci concentriamo direttamente mettendola a pieno fuoco ma la “comprendiamo” e acquisiamo lo stesso. Ecco, è questa (grande) porzione di scena che il nostro occhio può vedere e l’obiettivo fotografico “normale” no. Da qui penso che nasca il grande miracolo della fotografia, trasmettere emozione.
Per forza di cose, anche nelle proporzioni più simili in assoluto all’occhio, la macchina fotografica è una visione nuova, indipendente e unica. Ecco perché una scena che dal vivo ci da delle emozioni ben precise, fotografata, ci può dare sensazioni totalmente diverse, che si possono avvicinare o allontanare da quello che abbiamo vissuto veramente. Nel caso specifico, una buona fotografia può amplificare uno stato d’animo provato nel raccontare la scena, una cattiva fotografia, al contrario, perderà di significato rispetto alla realtà vissuta. Un’immagine che descriva esattamente la scena così come il fotografo l’ha percepita, è irrealizzabile. Lo scatto perfetto non esiste. E la macchina fotografica è solo uno strumento. Meglio così.
Voglio portarvi un esempio pratico, ovvero il caso Martin Parr, fotografo eclettico nostro contemporaneo. Geniale. A me personalmente non piace la tecnica che utilizza nelle sue immagini, preferisco scatti che prediligano la bellezza visiva a prescindere dal contenuto; ma colpisce in modo universale il modo in cui lavora questo fotografo britannico. L’ironia straordinaria con cui riesce a raccontare momenti comuni delle vite comuni, è certamente maggiorata rispetto all’ironia della stessa scena vissuta. Anzi, talvolta la scena vissuta non è ironica. Per nulla. Quindi cosa fa diventare un ciccione spiaggiato al mare tra i rifiuti (umani) di una battigia, un grande scatto? La porzione ritagliata dalla scena. E quindi la capacità da cecchino di Martin Parr di “tagliare” da una scena grandangolare percepita, uno spicchio che da solo, fa sorridere. E pensare.
Pensare fotograficamente, è il miracolo di questa arte. Pensare che oltre alla scena a volte noiosa che ci si presenta davanti, ci sia un mondo che viaggia parallelo che si chiama fotografia. Nel quale possiamo viaggiare quando e come vogliamo.